Nella bottega antica si lavorava in gruppo, ma tutto quanto usciva dalla bottega recava il marchio del maestro.
A cura di Andrea Cerqua
Gli studi dei pittori cinquecenteschi non erano come gli atelier che noi immaginiamo, quelli dei pittori del romanticismo, dell’impressionismo o delle avanguardie, nei quali il ruolo dell’artista veniva svolto, in buona parte, in titanica solitudine.
Per affrontare lavorazioni complesse e per produrre un elevato numero di pezzi, il pittore si dotava di diversi lavoranti, alcuni mantenuti, a livello di cibo e alloggio, altri minimamente salariati. Inoltre disponeva di lavoratori che si occupavano dei supporti e dei lavori di falegnameria. E di allievi che potevano essere garzoni di bottega o studenti paganti – com’era Caravaggio, nella bottega di Peterzano -.

Alcuni garzoni diventavano poi collaboratori del maestro, nell’ambito pittorico. Preparavano i fondali oppure impostavano i dipinti, sino quasi a finirli. Il maestro controllava e dava il proprio assenso. Poteva intervenire, anche rapidamente, per migliorare l’opera. Nella bottega antica si lavorava in gruppo, ma tutto quanto usciva dalla bottega recava il marchio del maestro.
Questo gruppo di lavoro e di allievi costituiva il minimo per poter procedere con produzioni sufficientemente ampie che potessero garantire all’artista un discreto reddito, che proveniva sia dalla vendita delle opere che dalle rette degli studenti paganti. In altri casi, come in Tiziano o in Raffaello, le botteghe erano qualcosa di compreso tra un grande laboratorio artigianale e un’industria.
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